VECCHI RICORDI DI VITA DI CANTIERE
tRATTO DAL MIO RACCONTO CONTENUTO NELL’EbOOK “MEMORIE DI CANTIERE – VOL. III”
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Leggendo e rileggendo le opere inviate dai vari autori al Comitato di Redazione per essere inserite nel presente eBook in fase di realizzazione, mi sono ritornati in mente alcuni piccoli fatti legati alla mia attività lavorativa negli anni ’80 sui cantieri esteri.
Alcuni degli eventi più significativi della mia esperienza estera li avevo già raccontati nei precedenti volumi; ora, però, provo a decrivere anche queste piccole storie, che erano ormai quasi dimenticate, ma che in questa occasione ho piacevolmente avuto modo di rivivere.
01 - GIORNATA DI PESCA STRAORDINARIA
Cantiere di Alicura, Patagonia argentina, giugno 1980.
Eravamo all’inizio dell’inverno, all’alba di una fredda giornata domeni-cale.
Dalla parte alta del nostro villaggio si vedeva in basso nella vallata che il bellissimo Rio Limay, forse il più bel fiume che io abbia mai visto, era coperto e nascosto da una nebbia bassa di colore perlaceo con striature di un giallo/rosa prodotte dai primi raggi del sole nascente e radenti la steppa patagonica.
La nebbia si sviluppava su due livelli: uno non molto spesso e liscio lungo tutto il fondo valle proprio sopra il fiume e l’altro più sopra con una struttura non omogenea, simile a nuvole basse.
Quel mattino, io e l’amico Davide decidemmo di andare comunque a pescare, nonostante la nebbia, avendo così concordato e deciso il giorno prima.
Caricammo le canne da pesca e tutta l’attrezzatura nell’auto e poi scendemmo lungo la strada che ci portava al fiume. Man mano che si scendeva a valle la nebbia diventava sempre più fitta. Arrivati vicino al fiume, parcheggiammo l’auto e con cautela ci avviamo a piedi lungo la sponda del corso d’acqua alla ricerca di un buon posto per pescare.
Noi due soli lungo il Limay, nessun rumore se non il leggero sciacquio dell’acqua. La bruma ci avvolgeva e riduceva di molto la visibilità. Quei tenui raggi di sole sopra la nebbia avevano dipinto il paesaggio con colori quasi surreali e tutto era visto come attraverso un vetro smerigliato.
Arrivati in un punto conosciuto, dove avevo quasi sempre pescato delle belle truchas maron (trote marroni), appoggiai lo zaino sull’erba gelida ed umida e mi preparai a pescare.
Scelsi un bel cucchiaino (detto anche rotante, un tipo di esca artificiale) pesante per un lungo lancio e lo legai alla lenza da 50. Pronto ad iniziare.
Appena fatto il secondo lancio nella nebbia sopra il fiume, immediatamente sentii un forte strattone che indicava che il pesce che aveva abboccato all’esca artificiale doveva avere delle dimensioni notevoli, visto gli strappi e la resistenza che opponeva alla canna.
“Davide dove sei? Devo aver preso una ‘bestia’!” gridai, dato che non vedevo il mio amico sperso nella nebbia. Quindi a fatica iniziai a recuperare con cautela la lenza, sperando di non perdere la ‘preda’ che non vedevo ma che sentivo lottare e dibattersi forte nell’acqua.
Mentre combattevo, si fa per dire, una lotta impari, naturalmente per il pesce, vidi con la coda dell’occhio che Davide si stava avvicinando, prima come una indefinibile ombra e poi nella sua realtà, imprecando perché il cucchiaino gli si era impigliato da qualche parte del fiume e lui per cercare di recuperarlo aveva rotto la lenza perdendo quindi l’esca.
Prima che mi fosse alle spalle ero quasi riuscito a recuperare la ‘bestia’, pensando “sarà un salmone o una trota marrone di 10 Kg. più o meno?”. Non potevo vedere cosa era, in quanto la riva era sollevata di circa un metro e mezzo/due metri rispetto al pelo dell’acqua e la preda, ancora immersa nell’acqua, non lottava più in quanto sfinita dalla resistenza opposta.
Un ultimo sforzo e la cattura è sul prato ai miei piedi. La guardo stupito ed incredulo: non era né un salmone, ne una trota marrone di 10 Kg., né un altro pesce, ma una spaurita oca selvatica che probabilmente si era immersa per mangiare ed aveva abboccato al cucchiaino scambiandolo per un pesciolino o un gamberetto di fiume o altro ancora. Almeno questa era stata la mia interpretazione di questo fatto non comune.
“Giuliano solo a te poteva toccare di pescare un’oca selvatica! Sei un fenomeno” esclamò Davide e giù a ridere fermandosi solo per proferire alcune parolacce in dialetto veneto. “Potremo mangiarla con la polenta” sentenziò alla fine.
Passato il momento di sorpresa mi avvicinai all’oca che non si muoveva più e con la pinzetta le levai l’amo dalla bocca che per fortuna non l’aveva particolarmente ferita in quanto un’ancoretta si era incastrata nel becco.
Sentendosi libero il bello e sfortunato volatile iniziò a sbattere le ali, prima lentamente e poi sempre più vigorosamente; tanto che all’improvviso spiccò il volo verso altre avventure, sparendo rapidamente nella bruma, accompagnata dal mio commosso saluto “Ciaaoooo Gigi!”
A quel punto mi sentii sollevato e contento che l’oca avesse riacquistato la propria libertà dopo il trauma subito. Aveva lottato strenuamente contro uno strano pescatore di oche, ma alla fine aveva vinto lei.
Prima di riprendere la pesca abbiamo deciso di fare colazione. Ci siamo seduti su un grosso sasso umido, dallo zaino ho estratto un buon panino con il salame che ho mangiato con gusto accompagnandolo con qualche piccola sorsata di vino che prima di partire avevo messo in una bottiglietta di plastica. Concludo la colazione con una fumatina ed un rutto suino.
Abbiamo poi ripreso la pesca con alterne fortune.
Man mano che il tempo passava la nebbia iniziava a dissolversi, tanto che ad un certo momento diversi raggi di sole riuscirono a penetrare quella strana bruma fatta di luci ed ombre e di macchie di bianco e di colore.
Fu a quel punto che il buon Davide ebbe delle visioni mistiche e tra il serio ed il faceto esclamò con molta enfasi che in quel momento avrebbe potuto vedere anche la Madonna!
La notizia della pesca dell’oca si diffuse rapidamente nel villaggio, anche se la maggior parte delle persone pensava che fosse una nostra invenzione.
Altro che invenzione o burla! Una straordinaria realtà di pesca conclusasi pure con visioni mistiche.
02 - Paso del Cordoba ed il tubo.
Cantiere di Alicura, Patagonia argentina, Luglio 1980.
Due settimane dopo la pesca dell’oca, insieme ad alcuni amici decidemmo di andare a fare un asado (grigliata) a San Martín de los Andes, bella cittadina in mezzo alle montagne sulla sponda del lago Lacar.
Il sabato pomeriggio lo passammo, oltre che a bere un paio di birre, a pianificare il programma ed a decidere circa la strada da farsi.
“Andiamo per la strada normale tutta asfaltata via Junin de Los Andes” suggerisce uno degli amici.
“Si, - aggiunge un’altro - è una bella strada. Da qui a là ci saranno poco più di 150 Km.”
“Esatto – aggiungo io – 155 Km., l’ho fatta qualche settimana fa e si arriva in poco più di due ore”.
“Però – continuo io – ci sarebbe un’altra strada più interessante, avventurosa e spettacolare.”
“Quale?” mi chiedono.
“Ne so qualcosa delle tue avventure!” interviene Cesare.
“L’ultima volta – dico io - che siamo scesi in fondo al Cañon abbiamo faticato un pò nella risalita in quanto la strada sterrata e ghiaiosa era molto ripida e le gomme faticavano a far presa. Comunque al villaggio ci siamo arrivati, passando pure una bella giornata e vedendo posti molto belli. No?” “Ti ricordi – aggiungo – quando sulla strada del ritorno, ormai quasi notte, abbiamo dovuto fermarci perchè una bellissima volpe argentata era ferma in mezzo alla pista polverosa abbagliata dai fari dell’auto? Poi per farla proseguire per la sua strada sono dovuto scendere dall’auto”
“Non vengo più con te – afferma Cesare – ho avuto un pò di paura su quella ripida salita, però sentiamo la tua ‘barbonagliata’ ”.
“Io la strada l’ho già fatta, – inizio a spiegare – allora andiamo fino a Confluencia, qui giriamo a destra per la strada 63. Da qui in avanti la strada è sterrata ma il fondo è bello, passiamo per il Paso del Cordoba, dove si ammira un paesaggio selvaggio ma spettacolare, passiamo per il Lago Meliquina, dove potremo anche fare due lanci di pesca, più oltre si imbocca la Ruta 40 e da qui in poco tempo siamo a San Martin de los Andes”
“Fino al Paso del Cordoba – aggiunge Cesare – ci sono già stato. Molto bello. Dopo sarà un’altra ‘barbonagliata’ ”
Seguirono discussioni, risate, altri aneddoti, però alla fine tutti d’accordo a seguire la mia proposta, anche se la durata del viaggio era superiore a quello del normale percorso.
Quindi decidemmo di incominciare i preparativi. Ci salutammo ed ognuno se ne andò a casa propria.
Dopo che gli amici se ne furono andati da casa mia, caricai sul cassone del pick up Ford F100 la griglia, un pò di legna, un paio di giornali, un tavolino, due seggioline, una corda robusta, l’attrezzatura di pesca, la borsa del pic-nic ed altro ancora. Coprii il tutto con un spesso telone di plastica.
Dopo di che telefono al magazzino per verificare se hanno fatto il pieno di carburante, dato che l’indicatore è guasto. Mi rispondono che tutto è a posto e che posso andare tranquillo.
Al mattino all’alba ci troviamo tutti davanti a casa mia.
Partiamo quasi subito ed arriviamo in poco tempo a Confluencia, dove giriamo a destra lungo quella strada sterrata, quasi deserta in mezzo alle montagne.
Il fondo era buono, ma essendo parecchio tempo che non pioveva le auto sollevavano un tremendo polverone obbligando a tenere parecchia distanza tra una vettura e l’altra.
Finalmente dopo una serie di tornanti arriviamo al Paso del Cordoba, luogo molto panoramico, dove ci fermiamo per ammirare il bellissimo paesaggio.
Dopo una decina di minuti, anche perchè faceva abbastanza freddo, decidemmo di riprendere il nostro viaggio.
Saliamo in macchina. Faccio per avviare il motore ma questo non dà segni di vita. Provo e riprovo. Niente da fare, purtroppo.
Scendo dall’auto e Cesare mi chiede “Che c’è Barbo?”
“Putt. il motore non parte più” rispondo.
Tutti riscendono dall’auto ed ognuno fa la propria diagnosi circa il mancato funzionamento del motore. Apro il cofano, riprovo, il motorino d’avviamento gira bene ma il motore resta fermo.
Tutti intorno a questo cofano aperto a guardare il motore, a toccare a caso qualche punto, sarà questo, sarà quello .... ma di noi nessuno era meccanico.
Il tempo passa velocemente e la soluzione non si trova, nonostante vari tentativi.
Qualcuno dice “non è che non passa la benzina?”
“Dal magazzino mi hanno detto che hanno fatto il pieno e controllato il mezzo” rispondo.
Però immediatamente mi viene un forte dubbio ed un pensiero “stai a vedere che hanno confuso il numero dell’auto ed il pieno l’hanno fatto ad un’altro pick up!”
Svito il tappo del serbatoio, in due o in tre muoviamo la camionetta, ma dal serbatoio non giunge alcun rumore di liquido.
“Sono a secco” dico aggiungendo una serie di volgari insulti all’indirizzo di chi avrebbe dovuto fare il rifornimento di carburante.
“Cosa facciamo ora qui in mezzo ai lupi ed ai puma?” esclama Cesare.
Io aggiungo “Non ci resta altra scelta che qualcuno ritorni in cantiere a prendere una tanica di benzina ed un imbuto”
“Però per ben che vada – dice Cesare – non prima di tre ore potrà essere di ritorno”
Incominciavamo a preoccuparci e già avevamo dato per annullato il viaggio a San Martin de los Andes con la relativa grigliata.
“Papà – dichiara mia figlia Barbara che allora aveva quasi dieci anni - noi abbiamo il tubo di plastica che usiamo per bagnare il giardino”.
“Come il tubo di plastica?” aggiungo io.
“Si – afferma mio figlio Davide di otto anni – l’ho messo io ieri sera nel cassone della camionetta per poter giocare al lago”.
Rinasce subito la speranza e l’idea della soluzione viene subito in mente.
“Cesare – dico io – portiamo la tua 128 con il pieno un pò più in alto rispetto alla camionetta, quindi con il tubo dell’acqua travasiamo la benzina dal tuo serbatoio al mio. Che te ne pare?”
“Si – risponde Cesare – con il rischio che poi io rimango a secco, dato che il tuo F 100 beve come un’assetato”.
“Ma ne succhiamo – replico io - quel tanto che basta per poter rientrare in cantiere dato che più avanti non possiamo andare”.
“Va beh, facciamo così allora” conclude Cesare.
Siamo tutti d’accordo che andare avanti sarebbe impossibile a causa della mancanza di carburande e quindi rientreremo in cantiere e pranzeremo tutti insieme o a casa mia o alla mensa.
Raggiunta questa intesa, mi metto in azione per posizionare la 128 di Cesare salendo a fatica sulla ripida banchina a fianco della strada, cercando di non rovesciarmi insieme all’auto. Finalmente l’auto è in posizione. Spingiamo a mano il pick up un po’ indietro in modo che il suo serbatoio sia un pò più in basso rispetto a quello della 128.
A questo punto è un gioco quasi da bambino. Prendo il tubo di gomma dal cassone, ne infilo una parte nel serbatoio dell’auto sopraelevata, poi mi inginocchio davanti al serbatoio dell’auto in secca e inizio a succhiare in modo energico dall’altra parte del tubo. Quando sento che la benzina sta arrivando, tolgo il tubo dalla bocca e lo infilo rapidamente nel serbatoio iniziando il travaso, anche se un pò di benzina finisce in terra.
Il travaso è stata una sofferenza per Cesare per il timore che tutta la sua benzina finisse nella mia auto. Non avevo un mezzo per calcolarne la quantità, ma quando stimai di averne presa una decina di litri, sospesi l’operazione.
Provai subito a verificare se l’auto partiva. Dopo alcuni giri a vuoto il motore
si avviò come se non fosse successo niente. A quel punto mi sentii molto più rilassato.
Girammo le auto e rientrammo in cantiere un po’ delusi per il mancato obiettivo, ma felici che grazie al tubo di gomma ed ai miei figli eravamo potuti ritornare a casa senza problemi, perdonando an-che chi non aveva provveduto al rifornimento di carburante.
Al Paso del Cordoba ci siamo ritornati qualche settimana dopo, alla prima nevicata della stagione, con il serbatoio di benzina pieno e l’indicatore del livello del carburante riparato. Prima di lasciare questo luogo fantastico per far ritorno in cantiere ci siamo fronteggiati in una divertente battaglia a palle di neve.
NOTA
La Patagonia argentina.
Poche e semplici parole per descrivere il territorio argentino dove sono ambientati i due racconti sopra descritti.
“Territorio sterminato, aree selvagge ed incontaminate, panorami e scenari indimenticabili, luoghi di straordinaria bellezza, atmosfere incantate, popolazione particolarmente ospitale.”
Impianto idroelettrico di Alicura.
La diga di Alicura, inaugurata nel 1985, è la prima di cinque dighe sul fiume Limay nel nord-ovest della Patagonia argentina (la regione del Comahue), a poco più 100 chilometri dalla città di San Carlos de Bariloche.
La diga è utilizzata principalmente per la produzione di energia idroelettrica con una potenza installata di 1.050 MW.
03 - 1986, DAR ES SALAAL, TANZANIA
Un quasi amico italiano
Sovente alla domenica si lasciava il nostro piccolo villaggio del cantiere “Baobab village” per andare a passare una bella e rilassante giornata al mare in una struttura turistica.
Una di queste domeniche, fermandomi ad ammirare alcuni manufatti artigianali molto belli, ho conosciuto un personaggio: un italiano straordinario che viveva in una piccola ma accogliente e dignitosa casa assieme alla bella moglie tanzaniana ed ad una bambina bellissima di 3 anni.
Aveva una grande cultura ed un linguaggio molto ricco, nonostante fosse in quel paese da oltre 10 anni e da allora non fosse mai più rientrato in Italia. Molto corretto ed educato, appariva. tranquillo, equilibrato e sereno, oltre che religioso. Era sui sessant’anni, almeno così lo avevo stimato io.
Non frequentava i nostri connazionali. Mi aveva però chiesto di passare ogni tanto a trovarlo. E così ho fatto.
Ricordo che su uno scaffale di parete di una stanza interna che dava su un piccolo patio erano ben allineati un centinaio e forse più di libri scritti in inglese, italiano e swahili. Di svariati generi: legge, economia, geografia, classici, religione, etc.
Nei nostri colloqui mi parlava molto del presente e del futuro e mai del passato in Italia.
Un altro argomento su cui spesso dialogavamo erano gli aspetti positivi e negativi dell’Africa, nonché le grandi opere che stavamo realizzando in Tanzania e nel mondo. Argomento quest’ultimo di suo particolare interesse.
Siccome lui era molto discreto, di conseguenza lo ero anch’io. Ma un giorno gli ho chiesto se quando era in Italia avesse svolto la professione di avvocato, lui ha sorriso ma non mi ha confermato.
Non siamo mai diventati veri amici, ma mi piaceva ogni tanto passare qualche ora con lui.
E poi la moglie sapeva preparare un ottimo ugali (polenta di mais parecchio dura e di colore tendente al bianco) con stufato di carne e verdure.
Tutte le volte che andavo a trovarlo gli portavo alcune bottiglie di birra Kilimanjaro, marca da lui preferita e diversi giornali italiani, dopo che in cantiere tutti li avevano letti.
Di lui ho sempre saputo ben poco.
Aveva sicuramente qualche cosa da nascondere, ma non credo assolutamente che fosse un "losco figuro", anzi io l’ho sempre considerato una persona eccellente che aveva lasciato, per qualche ragione, la sua vita di sempre per viverne un’altra più semplice e più umana in un nuovo paese altrettanto più semplice e più umano.
04 – PERSONE CHE SI RICORDANO PER LA LORO NEGATIVITA’.
E’ naturale che nel corso della vita a volte ci si deve fronteggiare con personaggi dalle caratteristiche non sempre positive.
Per la verità in ambito lavorativo ne ho incontrate non molte di queste persone, salvo che in un paio di cantieri esteri dove sembrava che proprio lì avessero concentrato il peggio che il mercato del lavoro estero potesse offrire.
Appunto lì sembrava che il Principio di Peter (in un’organizzazione “meritocratica” ognuno viene promosso fino al suo livello di incompetenza) trovasse la sua effettiva conferma. Alcuni personaggi erano arrivati proprio al livello di ciò che non sapevano fare.
La situazione in genere era sotto gli occhi di tutti in quanto le imprese, per motivi ai più non note, per queste aree del mondo avevano assegnato incarichi anche di alto livello alle persone meno adatte e non solo tecnicamente e professionalmente, ma pure umanamente. Pessimi individui, senza dubbio alcuno.
In tutti i casi è spiacevole doverlo ammettere, ma i personaggi più negativi li ho incontrati proprio sui cantieri italiani all'estero.
Di contro, penso di poterlo affermare con convinzione, le migliore, le più vere e le più durature amicizie sono nate proprio nei cantieri esteri, come quelle con Davide e con Cesare, citati nelle prime due storie brevi di questo racconto.
Queste due amicizie, sbocciate nel lontano 1979 in Argentina, nel cantiere di Alicura, tuttora perdurano e, ne sono convinto, perdureranno.
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